Ortomercato: tra lavoro nero e caporalato

Milano. Nella città di piazza Affari e dell’expo, c’è ancora chi scavalca una recinzione per andare a scaricare frutta. In nero. Una videoinchiesta di Paolo Fiore e Lidia Baratta. Anche questa è economia. Ma per nulla leggera.

pubblicato anche su espresso.it

Nuntereggae giù(lio)

«Diete politicizzate, evasori legalizzati, auto blu, nuntereggaepiù». Rino Gaetano, 1978. Ci sono voluti 33 anni per vedere un disegno di legge che si propone di ridurre i “costi della politica”: sette articoli voluti dal ministro Giulio Tremonti. Sperando che sia la volta buona, vediamo quali son.

Art. 1: «I compensi pubblici non possono superare quelli erogati per i corrispondenti titoli europei». Cioè: gli stipendi e i benefici dei parlamentari (che oggi sono i più alti d’Europa) dovranno avere un rapporto definito con le buste paga percepite nell’area euro.

Art. 2: Le auto blu non potranno superare i 1600 cc. Solo i presidenti di Repubblica, camere e Consiglio potranno avere macchinoni. Gli altri si dovranno accontentare di auto a misura di Brunetta: Mini, Punto, C3, Fiesta, Golf. Speriamo si evitino le Escort. Per ora il disegno di legge prevede la riduzione della cilindrata, ma non indicazioni sul numero di auto blu. Che in Italia, secondo uno studio di KRLS Network of Business Ethics sono 629.120 e costano 21 miliardi l’anno: record. In Usa sono 72 mila, in Francia sono un decimo (61 mila), nel Regno Unito 55 mila, in Germania 54 mila. Speriamo che questo articolo non faccia la fine dell’art. 76 contenuto nella finanziaria 2008: stesse indicazioni (limite dei 1600 cc) e stessa mancanza (riferimento al numero). La differenza è una: a proporla era stato il governo Prodi. Effetti: nessuno.

Art. 3. I voli di Stato saranno limitati ai presidenti di Repubblica, camere e consiglio. Gli altri, ministri compresi, un volo dovranno chiederlo. E la richiesta sarà pubblica.

Art. 4. Stop a benefit, vitalizi, locali e privilegi vari alla fine del proprio mandato.

Art. 5 “ I trasferimenti per dotazioni finanziarie” a parlamentari e autorità indipendenti sono ridotti, dice il disegno di legge pubblicato dal corriere.it, “del …”. Speriamo che questo “…” si trasformino in un numero onesto.

Art. 6. Il finanziamento ai partiti ” sarà ridotto del …”. A proposito di “…” idem come sopra.

Art. 7. Dal 2012 elezioni e referendum saranno accorpati.

Sarà l’ennesima promessa non mantenuta? È solo propaganda? Si vedrà. Il pareggio di bilancio e il rilancio dell’economia non si raggiungono solo con le auto blu. Ma, intanto, questo disegno di legge non fa una piega. Logica direbbe che maggioranza e opposizione siano d’accordo. Ma la logica non è la politica.

Paolo Fiore

 

Eni: peloso di uno cane

Per azzoppare un cane a sei zampe ce ne vuole. Tre mazzate così, però, l’Eni non le prendeva da tempo. E, in più, le ha beccate in appena due giorni, tra il 21 e il 22 giugno. Ieri Moody’s ha messo sotto osservazione il rating delle più grandi società italiane a partecipazione pubblica. Poco male: è un passo dovuto dopo la minaccia di declassare l’Italia. È vero: le agenzie di rating stanno perdendo di credibilità e sono spesso smentite. Non è una tragedia, ma è un segno. Poco incoraggiante. E non è un dramma che l’amministratore delegato di Eni chieda a tale Luigi Bisignani quali argomenti affrontare e cosa dire in un incontro che di lì a poco l’ad del quinto gruppo petrolifero mondiale avrebbe avuto con il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Non è un dramma, ma è un segnale. Poco edificante e un po’ peloso (“peloso di uno cane”, come dice lo spot). Fin qui nessuna rilevanza penale. Fin qui. Oggi è venuto fuori che l’Eni è sotto inchiesta. Alcune grandi aziende italiane dell’ingegneristica e delle costruzioni avrebbero pagato tangenti estero su estero a top manager dell’Eni per essere ammesse a far parte di appalti da miliardi di dollari in Kuwait e Iraq. Una rete organizzata in modo tragicomico. Come si capisce dai nomi in codice (“Panatta”, “Zio Tom”) e dalle schede telefoniche usate: lituane, nella convinzione che non fossero tracciabili. L’Eni si dice “parte lesa”, ma è indagata come persona giuridica. Poco gratificante. Più di un segnale. Fortuna che per camminare bastano meno di sei zampe.

Paolo Fiore

Categorie:economia, imprese Tag:, ,

Bolle e bollicine

Bollicina finanziaria. Coca-cola accusa Goldman Sachs di manipolare il mercato dei metalli. Ma che c’entra la casa di Atlanta con la banca americana? E che c’azzeccano tutt’e due con i metalli? La risposta sta in una parola: lattina. Da qualche anno Goldman Sachs investe sui metalli. Secondo Coca-cola in modo illegale. La banca – scrive il Wall street journal – acquisirebbe riserve di metalli. Ma, anziché metterle a disposizione dei compratori, ne limita la quantità destinata al mercato. Con il risultato di alzare i prezzi. Un’inflazione artificiale inaccettabile per Coca-cola. Che con quei metalli – con l’alluminio in particolare – ci deve costruire milioni di lattine.

Non è la prima volta che Goldman Sachs è accusata di turbare il mercato. Un mese fa dichiarò che il prezzo del petrolio sarebbe aumentato,  spalancando le porte alla speculazione.

In aprile alcuni osservatori hanno indicato il Commodity index della banca d’investimenti quale ‘piattaforma’ di speculazione sul prezzo delle materie prime. Con il risultato che si vede qui accanto. E qui, più che bollicine, sembraesserci una bolla.

Paolo Fiore

Reputazione, vince Google. Ma dove sono le italiane?

Ti piace vincere facile? A Google sì. In tutto, anche in popolarità: è l’impresa con la migliore reputazione al mondo. Lo dice la Global RepTrak 2011, classifica stilata da Reputation istitute. Il podio si completa con Apple e Disney. Nelle prime dieci posizioni, oltre a quattro gruppi americani, ce ne sono due giapponesi. Anzi, di tecnologia giapponese (Sony e Canon). E tre tedeschi. Anzi, di automobili tedesche (Bmw, Daimler e Volkswagen). Fiat non pervenuta nenache tra le prime 100. L’unica europea non tedesca nella top ten è Lego, quinta. E le italiane? Indietro. La reputazione delle imprese tricolore si salva grazie alla nutella: Ferrero, ventiduesima, è il gruppo gruppo più ‘popolare’ all’estero. Nella top 100, le imprese italiane sono solo tre. Oltre alla casa di Alba, Pirelli – trentunesima – e Barilla – cinquantaduesima -. Una classifica che cambia di continente in continente: agli ameiricani piacciono i cerelai (kellogg’s ha la migliore reputazione),  Google spopola in America Latina, Lego in Europa. E agli asiatici piacciono i cartoni animati. Quelli occidentalissimi di Disney. Una eterogeneità cui sfuggono solo Apple, Google, Lego e Sony. Sono loro i gruppi davvero global, gli unici a comparire nella top ten della reputaizone di nove Paesi sui quindici.

Paolo Fiore

F2i, il fondo senza fondo

Come il giovedì: sta sempre in mezzo. Tra comunicazione, acqua,  gas il nome che salta fuori è sempre lo stesso: F2i. Il fondo guidato da Vito Gamberale ha acquistato la rete di dstribuzione di gas G6. Già in possesso di Enel rete gas (dal 2009) e di E.On (dal dicembre 2010), F2i diventa così il secondo operatore nazionale, dopo Eni. Costo dell’operazione: 772 milioni. Per una volta i francesi non sono stati avversi (l’investimento proviene per il 75% da F2i e per il 25% da Axa private equit). E – per una volta, – non hanno comprato ma venduto: G6 era in possesso di Gas de France Suez.

F2i non non si ferma al gas. Pur giovane – nato il 23 gennaio 2007 – può contare su 1,85 miliardi di euro. E sull’appoggio del Tesoro, che, tramite la Cassa depositi e prestiti, ha versato in F2i 150 milioni. Casse piene e spalle coperte. Che hanno consentito al fondo di acquisire appena otto giorni fa, il 31 maggio, il 100% di Metroweb. Altra operazione corposa, da 436 milioni (spesa sostenuta con Intesa Sanpaolo) che mette nelle mani di Vito Gamberale e dei suoi investitori 330 mila chilometri di fibre ottiche e 2,7 milioni di potenziali clienti. Cioè la più estesa rete metropolitana d’Europa. Lo sviluppo della banda larga in Italia – necessaria nei prossimi anni – dovrà passare da F2i. Che guarda con interesse anche al referendum del 12 e 13 giugno. Meno di un anno fa, nel luglio 2010, il fondo di gestione ha acquisito una quota di Mediterranea delle Acque, società nata dalla fusione di tre gestori genovesi del servizio idrico. Investimento che frutterebbe non poco in caso di liberalizzazione.

Cosa può desiderare ancora F2i? Per il suo amministratore delegato Vito Gamberale – una vita nelle imprese di stato (Eni) o appena privatizzate (Autostrade e Sip, poi Tim) – «il sogno è fare di questo fondo una holding e di quotarla in Borsa». Con acqua, fibre ottiche e con una quota del mercato del gas che tocca il 17% adesso ha tutta l’energia per realizzarlo.

Ipse dixit nucleare e bugie atomiche

«Il nucleare è il futuro per tutto il mondo»
Silvio Berlusconi 26 aprile 2011

Il ricorso al nucleare è inevitabile
Silvio Berlusconi 27 maggio 2011

la Germania ha 17 centrali nucleari che non saranno spente.
Claudio  Scajola 19 aprile 2010

Le rinnovabili non basterebbero per il nostro approvvigionamento energetico. Il futuro è del gas, del petrolio e del carbone: sono loro, finché non riparte il nucleare, i veri vincitori della partita.
Chicco Testa 5 maggio 2011

Tra 50 anni finirà il petrolio, tra 80-100 il carbone, seguito poi dal gas. Altre fonti non saranno sufficienti a fornire l’energia di cui abbiamo bisogno. Il risultato? Non avremo la luce, non potremo far funzionare i computer o i frigoriferi e neppure far viaggiare i treni.
Umberto Veronesi 3 marzo 2011

30 maggio 2011. La Germania annuncia che, dal 2022, rinuncerà all’energia nucleare. Userà le centrali solo in caso di emergenza:
La Germania potrà diventare uno Stato pioniere verso una nuova era fondata sulle energie rinnovabili. Possiamo trasformarci nel primo grande paese industrializzato che compie la transizione verso l’energia rinnovabile, cogliendo tutte le opportunità che questa offre: tecnologia, sviluppo, esportazione e posti di lavoro.
Angela Merkel 30 maggio 2011

Domani la Cassazione deciderà se ci sarà il referendum sul nucleare. Quella sull’atomo è una scelta complessa: il sì e il no hanno le loro ragioni. Basta non diluirle in mezzo alle frottole.

Brics o donna? Una bomba al Fmi

Il prossimo direttore del Fondo monetario internazionale sarà una donna o un uomo dei Brics? L’Europa ha il suo candidato alla guida del Fondo monetario internazionale. È Christine Lagarde. Ministro dell’Economia, francese come Strauss-Kahn, donna.

Ma i Brics non sono più disposti a lasciare il passo alla vecchia Europa. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica spingono per un candidato che esprima i nuovi equilibri. E rispetti le promesse fatte da Jean-Claude Juncker nel 2007. Il presidente dell’Eurogruppo, poco dopo la nomina di Strauss-Kahn, assicurò che «il prossimo direttore generale del Fondo Monetario non sarà certamente un europeo». Certo. Infatti: fuori un francese, dentro un(a) francese (come già tre direttori generali sui dieci nominati dal 1946) . Una nomina, fanno sapere i Brics in un comunicato, «fatta sulla base della nazionalità». Il che «mina la legittimazione» del Fmi.

Per conservare la credibilità dell’Istituzione, «il suo direttore – continuano i Brics – dovrebbe essere selezionato dopo un’ampia consultazione con i paesi membri». In altre parole: «La situazione richiede l’abbandono delle convenzioni obsolete e non scritte secondo cui il leader del Fmi deve necessariamente essere europeo». I Paesi emergenti hanno proposto una personalità di peso, Agustín Carstens (nella foto), oggi governatore del Banco de Mèxico, la banca centrale messicana, e – dal 2007 al 2009 – numero tre del Fmi.

Se a spuntarla sarà la filiforme Lagarde o il pacioccoso Carstens, la vecchia prassi o i nuovi equilibri, si tratterà comunque di una prima volta: mai prima d’ora c’è stata una donna alla guida del Fmi. E mai – a eccezione dell’attuale ‘facente funzione’ John Lipsky (statunitense) – la direzione è stata affidata a un non europeo

Latte macchiato

Parmalat, Lactalis, Opa sì opa no, prezzo troppo basso, troppo alto. Tra italianità e ‘settori strategici’ ci si è dimenticati di un particolare: del risprmiatòre – come direbbe Alan Friedman.  Anzi, di quelle decine di migliaia di piccoli azionisti che hanno visto andare a male i propri risparmi come fossero yogurt. Soldi recuperati, pochi. Risarcimenti dalle banche, nessuno. E ora, neanche il piacere di guadagnare qualche euro durante l’Opa Lactalis. Nel 2005 Parmalat ha emesso 80 milioni di warrant in favore dei creditori del crack. Gli warrant sono titoli derivati che, entro il 2015, possono essere trasformati in azioni. E – come in tutte le Opa – essere vendute. Anzi no. Parmalat ha comunicato che “l’esercizio dei warrant è sospeso sino all’Assemblea e comunque sino alla data di stacco del dividendo”. Tradotto: l’assemblea Parmalat è prevista per il 28 giugno. Il termine dell’offerta pubblica di acquisto per l’8 luglio, e la data di stacco del dividendo per la settimana successiva. Quindi: i risparmiatori che ancora non hanno trasformato i loro warrant in azioni (per un valore di 62 milioni sugli 80 emessi), non possono partecipare all’Opa. E guadagnarci qualcosa dalla vendita.

Qualcuno però ci ha guadagnato: 2,54 milioni di warrant sono stati convertiti in azioni appena due giorni prima dell’annuncio ufficiale da parte di Lactalis di essere salita all’11% del capitale di Parmalat. Delle volte il caso è bizzarro.

Morto Bin Laden. I quotidiani in rianimazione

2 Maggio 2011 1 commento

Osama Bin Laden è morto. E neanche la stampa se la passa benissimo. Se in questa vicenda c’è una cosa più sicura della decapitazione di Al Qaeda, è il coma profondo del quotidiano di carta.

Chi ha dato la notizia della morte dell’uomo più ricercato del mondo? Il Washington Post o la Cnn? No, Twitter, quando Keith Urbahn, già capo dello staff del segretario della Difesa americana Don Rumsfeld, scrive sul suo profilo: “So I’m told by a reputable person they have killed Osama Bin Laden”.

Oggi, come ogni 2 maggio, i quotidiani non sono in edicola. Ma in pochi se ne sono accorti. Televisione, radio e web hanno abbondantemente coperto la morte di Bin Ladene e il discorso di Obama. Segno che – quanto a notizie spicce – la carta sta scivolando fuori dal podio. Secondo dati Ads (Accertamento diffusione stampa), in un anno i principali quotidiani italiani sono scesi in picchiata: Corriere della Sera -6,9%, La Repubblica -7%, La Stampa -6,8%. E i loro bilanci non stanno certo meglio. Internet invece sale. Secondo Nielsen, nel 2011 la raccolta pubblicitaria su internet supererà quella della carta stampata. Se i quotidiani perdono lettori, i siti d’informazione guadagnano utenti. Proliferano le testate che vivono solo online: Blitzquotidiano, Lettera43, Linkiesta, IlPost, Dagospia. Quest’ultimo – il più diffuso tra i citati – ha poco meno di 85mila utenti unici. Poco rispetto ai giganti di carta entrati nella rete: la Repubblica.it ha 1, 6 milioni di visitatori al giorno. Il corriere.it 1,3. La stampa quasi 360mila. E allora? Allora forse i quotidiani – e i loro bilanci – non sono ancora da requiem. Hanno un nome ancora spendibile, a patto che si rendano conto che internet non sarà, ma è. Con una convinzione: non bisogna (in)seguire il web, dal web è necessario distinguersi. Una rete può salvarti la vita, ma nella rete ci si può rimanere impigliati. La carta stampata è moribonda. Ma la sua morte – per ora – è un falso. Come la foto di Bin Laden.